giovedì, maggio 25, 2006

Kafka

Astrit Cani

Franz KAFKA, lo straniero come prodigio, e la vita come ritardo



«La verità ha un volto terribile» riflette Hannah Arendt a proposito di Kafka. Questi, in uno dei suoi fulgenti aforismi, ci ricorda appunto come l’arte (cito a memoria) giri attorno alla verità, come la mosca attorno alla lampada, senza troppa buona volontà di avvicinarsi, per paura di bruciare. Questa verità non può essere contemplata perché la sua vista ci annichilirebbe, e il contemplarlo sarebbe fatale, poiché essa è teomorfica come il Dio di Mosè che dice «Sono colui che sono». Persino l’arte ci tiene lontani dalla verità? Kafka pensa di sì, e quindi come ultima sua volontà ne esige la distruzione. Tutto quello che produciamo, ci allontana dalla verità, specialmente la nostra giustizia… - non è forse questa la tesi, e al contempo il timore di Kafka?
C’è una specie di impronta teomorfica su tutte le cose che fanno parte del mondo kafkiano, ma lo scrittore mette in rilievo soprattutto la loro negatività che egli trova e sente fino alle estreme conseguenze dentro se stesso, dentro il tentennare della fede, della fiducia e della speranza, la paura propria dell’uomo dentro il profeta. Ed ogni uomo è un piccolo profeta del destino della propria famiglia e comunità, e senza dubbio del destino dell’anima sua.
A memoria d’uomo, sembra che i primi a sentire teomorfico, e a fondare il proprio vivere sulla trascendenza, siano state le tribù semitiche. E a rigor di storia, bisogna confessare che si potrebbe parlare di una specie di primato estetico del sentire il teomorfico, o volendo, del sentire teomorfico. Primato che le tradizioni religiose monoteiste e il pensiero filosofico unicista, si compartirebbero. Ma a noi qua interessa indagare il sentire proprio dello scrittore Kafka. Sembrerebbe che egli senta il tempo, ma non lo spazio, dacché il punto di riferimento (il suo centro) è Dio, ragion per cui, trovandosi sempre nella stessa distanza da centro non ha ragione di dubitare che il moto esisti. Non a caso in lui, il procedere narrativo, come ha rilevato Borges si sposa perfettamente coi paradossi zenoniani, veri e propri deus ex machina nei romanzi kafkiani.
Le situazioni e gli avvenimenti accadono nella Storia, ma il Dio è presente in esse come uno straniero. (Kafka stesso assume la prodigiosa identità dello straniero. Quello storico: l’ebreo e quello filosofico: il pensatore.) È una presenza indiretta, almeno così viene sentita. Passa inosservato, ma le anime più sensibili ne avvertono inspiegabilmente la presenza. Il Dio si presenta nelle feste come uno straniero, e se ne va in silenzio, perché non è stato riconosciuto o perché non riconosce più la sua prole. Come un Ulisse che dopo la sua Odissea tornasse in patria ma non si sentisse più figlio ne padre, ma straniero, e se ne andasse senza affetto ne rancore alcuno, senza lacrime ne sorrisi.
I personaggi kafkiani, sono come bruciati dal passare dello spiro divino ed è come se loro a la stregua degli egizi non avessero avuto il messaggio profetico, mancando così di segnare le porte col sangue d’agnello. L’eroe kafkiano non ha valore ma neanche volere sociale. Egli è fermo, si è levato i sandali; non camminerà oltre. Ma la profezia non avviene. Qualcuno ha sussurrato a questo profeta mancato che Dio è morto; egli non riesce a sentire altro. Kafka è un profeta, ma a differenza di Mosé, è profeta senza profezia; è un profeta al negativo come si addice al nostro tempo. La stessa speranza è vista da Kafka, come ineffabile, inesprimibile attributo divino.
In effetti, una delle piú importanti proprietà della categoria di “kafkiano” è la sua inafferrabilità. Sappiamo che la sua fortuna critica si rinnoverà sempre, perché Kafka è lo scrittore meno kafkiano della letteratura, come Dante è il più dantesco. Più lo si conosce, e più Kafka diventa straniero; straniero come foriero di novità, come altro, come prodigio. Le chiavi che noi troviamo, sono come degli alfabeti nuovi, forieri però di un'unica misera lettera partecipe del vero alfabeta. Kafka è un antico linguaggio del futuro.
Le storie di Kafka, sono storie di stranieri. Esse non hanno inizio se non quando i protagonisti sono già diventati degli stranieri. Com’è il caso di Karl Rossmann, ma anche di K. o dell’agrimensore K. Tutti loro cercano di sfuggire a questa condizione, ma non ci riusciranno. Forse, perché stranieri si nasce. Perché è col nascere che si diventa stranieri. E questi personaggi sono sì degli stranieri della società, della storia o del mondo, ma soprattutto essi sono e rimangono stranieri di Dio e della sua provvidenza.
«Dio è morto, l’avete ucciso voi»… e in e per Kafka, è stato soprattutto il nostro ritardo ad averlo ucciso. Il fatto più tragico del mondo kafkiano è questo ritardo. Anche la morte violenta di K. nel “Processo” sembra più tragica perché non avviene a tempo debito ma è anticipata dal suo ritardo nello scoprire la propria colpa. E in fondo, questo ritardo, che è un anticipazione è congenito di tutti gli uomini. Perché tutti noi, moriamo in fortissimo ritardo sul significato della vita; prima di aver capito perché abbiamo vissuto. E forse questa è la più grande colpa. Il non aver capito, il non aver creduto… L’antico detto riferisce, che il buon Dio acceca coloro che vogliono perdere.
Prometeo anche egli, anzi è proprio lui il simbolo dei ritardatari. Il suo fuoco trovò gli uomini già ammaestrati dalle tenebre.

In “Davanti alla legge”, racconto centrale della produzione kafkiana, si assiste alla prova dell’uomo davanti al proprio destino. Vi si trovano dispiegate due negatività: la prima è quella che risiede dentro l’uomo, che è appunto la sua impossibilità di scegliere fino in fondo. La seconda è la negatività insita nel potere. Ma Kafka non solo descrive, ma anche fa fronte a questa negatività; perché essa perde molto della sua negatività per il fatto di venir narrata.
L’assoluto hegeliano in Kafka si concretizza nel gesto. Di cosa parlano mai le opere del buon Franz se non del dettaglio divenuto destino?
Il guardiano che pur si trova ad essere detentore di potere, non è che contadino davanti al potere del prossimo guardiano, e così via fino all’ultimo guardiano, che Kafka non menziona, ma nel cui cospetto tutti i guardiani, sono come il contadino. Kafka sembra dirci, che la via della salvezza esiste ma è impercorribile, dacché il primo passo ci fa (la nascita) finire in mezzo ad un labirinto dialettico, che è tutto centro, e non meno arduo del paradosso di Zenone. Il problema logico di Zenone, diventa in Kafka un problema teologico.
Kafka ha paura del potere. Perché sa che più ci si avvicina a questo, più la nostra umanità viene scossa… Il potere fa paura perché è oggettivo. E il soggetto non potrebbe sopportarlo. Il guardiani della legge fanno paura non perché malvagi o diabolici, ma perché detentori di arbitrio e potere. Credo che uno dei problemi centrali dell’opera kafkiana sia l’impossibilità (l’impotere) - molto moderno - di sottrarsi al potere. Di salvarsi da quella Wille zur Macht, che sarebbe l’unica realtà oggettiva dacché volontà soggettiva capace di oggettivare la realtà.

Tutto ciò, non vorrebbe affatto aiutare il culto di Kafka come filosofo-profeta che continua a fuorviare i lettori di mezzo mondo. Kafka, come ogni altro pensatore andrebbe letto come letteratura. E' nella sua capacità di narrare, quindi di dare una forma positiva alla negatività della vita nel mondo, che consiste la sua genialità. Tutte le mistificazioni ci allontanano da lui, e ne fanno una sfinge. Ma egli è uno scrittore. E leggendolo come tale, esaudiremmo l’ultima delle sue volontà. Quella di bruciare il moralista e il filosofo che vi era nascosto, perché si brucia solo ciò che è combustibile, e non la verità. È sicuro che voleva essere ricordato come scrittore, per questo aveva già pubblicato. Ma nei manoscritti, soprattutto nei romanzi, si faceva avanti a spada tratta un filosofo della religione che deludeva lui e poteva fuorviare il suo lettore. E voleva essere un fedele, semplicemente, meglio che un fedele letterato. E con infiniti scrupoli chiese al suo amico Brod, di fare un gesto di discrezione.
Egli era scrittore nel senso classico: non uno che coltiva misteri. Perché un libro non è l’enigma, ma la soluzione di questa.
E le domande di Kafka più saranno profonde, in misura assai maggiore conterranno le risposte.
Kafka ha oggi nel nostro tempo bassamente antropomorfico e narcisistico, l’ardua compito di farci sentire il teomorfico, di ricordarci la fede per la fede. E in questo, la sua è una delle opere più positive del nostro tempo.

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