giovedì, maggio 25, 2006

Racconto

UNA CAFFETTERIA MOBILE


Come c’è un primo violino nell’orchestra ad archi, come c’era il primo bajrak nella tradizione dei principati albanesi, così io, nei banconi della caffetteria mobile, mi reputo prima tazzina.

Ora, svegliandomi un’ora più tardi del solito ritardo, vorrò pure combattere quel sonno ultramondano che non è veramente il richiamo della foresta di Morfeo, piuttosto che la voglia di non stare da nessuna parte, e quasi – quasi brama di nonessere. Il mattino. Destinato a passare come se non fosse mai arrivato. D’altronde, questa città è il luogo più adatto per rimanere vittima di simili dissociazioni.
Non sai proprio coem riesci ad aprire gli occhi, ma forse è merito del fiume di caffè che scorre nelle tue vene che riesci a svegliarti la mattina. Come lo scrivere ti sveglia dalla vita. Oh, ma delle cose da fare in paradiso, non ci sarebbe forse da bere un caffè con Kafka, lo scrittore che non dormiva mai… Anche il tuo cuore non dorme, è la vita a tenerlo sveglio, quella stessa che fa assopire la mente che languisce boccheggiando…
Un caffè dalla macchinetta… mah. E a che serve? c'è bisogno di vedere all’opera un Cimbali, quello si.
Il bar sa di virtuale come la geometria degli spazi suona così irreale, mentre passo alieno, il silenzio elettrostatico delle librerie affianco si squaglia mollemente.
Porto in me libri e libri di libri certo non copiosi come quelli dietro le vetrine, ma sicuramente più vissuti, a tratti lacerati da tutte le volte in cui gli ho sfogliati facendo i compiti della solitudine. Cammino sentendomi spugna magnetica, scaffale che stenta a rompersi da volumi il cui peso è centuplicato dalle letture forzate dell’essere solo. Ma questo piccolo boulevard è cosi bello, con il codice solare degli ambulanti negrafricani. La parola fragile quasi mi casca dalla bocca, e provo un fremito dalla paura che si rompa.
Sei abituato ad amare l’università, e vorresti credere che la fine del mondo non la toccherà, per lo meno l’idea di università la ritroveremo… è questo il mio modo di intendere “zona franca”. Quando penso che l’Eden non sia evaporato ma sia esploso per colpa del primo peccato kamikaze dell’uomo, e le sue ancora vivide parti siano finite sparse per il mondo, avvolte, col sole, mi sembra di intuirne la presenza anche qui, dentro queste mura. In questa corte del sapere con cortili interne dove non ci si sente cortigiani.
Ma questo posto ha perso la magia e la sta smarrendo del tutto. Il mio amico insiste a dire che la Statale serbava ancora fiamme di vita quando vi si trovava l’aula fumo. Il massimo splendore si raggiunse quando il medesimo vi trovò una tabella che diceva “Qui si può fumare”, forse unica al mondo. Sicuro: in questa dicitura c’era qualcosa dell’aria aperta e folle delle isole, o quella fresca e alta delle montagne, che sono la vera cifra della natura. “Qui si può fumare”, si sogna il paese in cui questa è la norma che ride dell’eccezione, si è sempre in aria di preparativi... chiunque va in giro con un accendino in tasca, in cuor suo sogna quel paese.
Sono state ore particolarmente umane.
Con altri, per il primo caffè del mezzogiorno… Lo sapevate che a Cuba l’affitto è veramente simbolico. Sigari e ragazze per tutto il giorno: ci sono cinque ragazze per ogni puttaniere… Ma vi giuro che nel mentre una signora era sortita sul balconcino di un piano medio, e mostrava ai nostri occhi estasiati l’origine del mondo in carne ed ossa. Eppure questo rimane un quartiere da signori. Ridiamo ancora di grazia, mentre l’ultimo a girare la testa è anche il primo a pagare, giacché non ha potuto vedere. «Un altro caffè», chiede. Ma certo, non siamo ancora svegli.
Eh, ma lo stare svegli, dipende dai posti.
E si esce, si va in biblioteca… Sapeste le cose che succedono la dentro. Hanno tutti le teste chine ma non per pregare, ne in segno di pentimento; hanno le teste chine per diventare degli individui più preparati, e ogni volta che le rialzano sono più fieri e saccenti. Ma io non vedo che occhi rossi, con i miei occhi non meno rossi. C’è una vera elettricità statica che scorre su tutti i libri.
A qualcuno sembri Renato Zero: il taglio di capelli, il viso apostolico? Ti verrebbe da farlo uscire e cantargli la canzone dall’inizio alla fine, suonandogliene di santa ragione, ma sei in un posto che per il tuo cuore è zona franca, quindi queste cose dovresti proprio lasciarle per fuori.
Fuori. La giornata è una sigaretta che mi si spegne tra le labbra decine di volte, ma non tardo a riaccenderla con il solito caffè. La piazza. A volte ci passavi delle ore, o erano minuti che sembravano ore. Hai fatto finto di averla capita questa città, ma non ti sei mai adattato a questa finzione. Ecco, credo di poter imitare qualche accelerazione che si nota in piazza, posto dove il mondo consolida da secoli l’assurdità del moto. Ma io corro verso un’altra città, quella celata, che non si nasconde ai suoi cittadini, ma ai cittadini di questa città… e la trovo abbellita dal risuonar desto dei passi femminili sul selciato già mutato in ammagliante serpente amaranto… passi femminili di gambe femminili che sorreggono un corpo femminile, felino, perfetto, dove tutto diventa un dove! Poi, un labirinto di silenzio. Se piove, piove, non inquina.
Ma non piove.
Che vivida sera! Ecco le vetrine con i tappi da vino dai fondoschiena di porpora, fulminati in un fantasmagorico momento d’orgia, come gli antichi pompei dalla vendetta del vecchio Vesuvio. Cantami o musa l’ira funesta di Vesuvio l’altezzoso!… E dentro in una saletta d’attesa tipo alberghetto, il più piccolo espresso della città, che fa il caffè più esemplare che uno possa bere. Il tutto abbassando una leva di ottone e stagno. Non esce che del caffè ma io lo guardo come se avessi vinto alla slot-machine… Espresso a leva! Parti per fare un caffè e ti pare di far partire un treno. Caffè in locomotiva!
…Fuori, a sinistra, alla sinistra-destra, poi all’altra sinistra e giù per le scale di una sala da bigliardo stile topaia, ricolma di gente dai volti con soscritto “scordati di me”, venuti dalla Giamaica, dal Venezuela, dall’Albania dopo che le ruote dei carri del destino dei rispettivi paesi si sono staccate rotolando un po’ senza senso. Ma ci sono già i birri, che mi ricordano appunto che le zone franche della mia via qui, sono ben poche.

Avevo il biglietto per uscire da lì di buon grado: la voglia di un caffè. Eccomi arreso all’aria fresca, a quel filo di voce del giorno che non è ancora morto di consunzione. Oh, c’era un ago di luce che m’entrava nell’occhio stamattina dal balcone mentre prendevo il caffè chez moi, e il mio cuore sembrava rigonfiarsi baldanzoso. Ma ora è scesa la sera infingarda, a fare da porta spalancata per la notte. Verdeggiano nel nero le sue giurassiche spoglie: i cipressi. Ma chi c’i va! Il finestrino del bar riluce amichevolmente ed il vecchio barista s’appresta a darti la buona sera.
Un passo, è già passata… un caffè e sei pronto per la notte.

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