sabato, maggio 27, 2006

"Li occhi putti", un racconto di M. Dibra

Mir Dibra


Occhi putti
(Sytë kurvnorë)


Il giovane scrittore senz’opera, Tristan Tz., sbucciò l’ultima arancia mentre cercava con gli occhi un cestino dove buttare la scorza. Quando la gettò ebbe un brivido pensando alla propria di buccia. Era da dieci minuti che camminava in quella strada dritta, e non la smetteva di chiedersi se non dovesse tornare da dove era venuto.
Era domenica e la sgombera strada gli sembrava molto più lunga del solito. I pensieri che si agitavano nella sua testa diventavano sempre più neri, e si affollavano come degli intrighi in una corte bizantina. In tanto, ad ogni pezzetto d’arancia mandata giù, il freddo dentro di lui, cresceva. Non vedeva l’ora di trovarsi dentro un vagone metrò dove godere in tranquillità di un po’ di riscaldamento e della velocità di quel lombrico di ferro.
La giornata non poteva essere più scialba. Era stanco di tutto: della solitudine, come del proprio peso, come dei fottuti maiali che di quando in quando gli tagliavano la strada. Ma la cosa che lo esasperava veramente era la sua opera, la quale in tutto non contava che poche, alquanto mediocri, pagine.
Era da anni che lui, immerso a capofitto in un abisso di solipsismo verbale, o verbalismo solipsistico, non vedeva più la via. Immaginate un deserto dove la sabbia è ghiaccio triturato, un cielo dove sono stesi mille ombre impregnate della materia oscura dell’universo. Immaginate di considerarvi dei buoni a nulla, che trovandosi nel bel mezzo di una guerra non fanno che reggere il muco non sapendosi servire nemmeno del fazzoletto…
Ma trattavasi di guerra sporca. Perché egli era come catturato da una rete potentissima di sguardi che lo lasciavano inerme davanti alla vita.
Occhi putti che lo seguivano come serpi, occhi putti che lo pungevano mentre mangiava, occhi putti seguiti da parole sibilanti, occhi putti pieno di piscio, occhi putti in pieno giorno; tenebre appiccicose. Occhi putti dai mille veleni. Occhi putti sui quali la morte ha cagato. Occhi putti a scuola mentre studi, occhi putti nel quartiere dove abiti, occhi putti nella vita che vai morendo. Occhi putti al posto in cui lavori, occhi putti: buchi neri trittura-materia. Occhi putti di puttanelle con le idee chiare e dei loro compagni con gli occhi putti e con lacrime di pus. Occhi putti che ti guardano con vomito. Occhi putti di spie, becchini, e strozzini. Occhi putti di spregevoli bastardi. Occhi putti di carogne. Occhi putti che quando dormono sbattono i denti dei loro subdoli appetiti. Occhi putti che stillano veleno da uccidere un serpente!…
…“Occhi putti”, quale titolo migliore per la sua autobiografia - l’avevano perseguitato fin da bambino…
…occhi putti che si fanno crescere le unghie per graffiarti. Occhi putti incendiarî che non basterebbe a spegnerli nemmeno lo sputo di una balena… gli avevano condizionato la vita, speravano non gli condizionassero anche… la morte, ecco!
Occhi putti che marcivano putrefatti. Occhi putti - buchi di culo. Culo a due buchi - occhi putti. La merda è tanta dentro questi maiali che per espellerla li occorrono due buchi. Ma non preoccupatevi: torneranno a mangiarsela. Occhi putti che ti stanno alle calcagna. Occhi putti che ti succhiano il sangue.
Gli occhi putti che hanno interrotto i nostri baci.
Quegli occhi putti con l’invidia della fogna per le stelle…

Si era seduto Tristan TZ., e beveva. A breve sarebbe stato ubriaco, e quindi pronto a lavorare. Quel freddo di prima, era scomparso del tutto. Adesso sentiva caldo e il bisogno di bruciare un po’ d’energie. Uscì chiedendosi se aveva pagato. E si mise a camminare lungo il marciapiede oscurato.
*** L’indomani si sveglio di buona ora. Ed ebbe una idea discreta: Parigi! Sentii il richiamo di questa città-cuore, e si sovvenne dell’eremita di montagna, che da giovane colto da propositi omicidi, ebbe la beata ispirazione di recarsi al tempio nell’intento di non uscirne chè a partito preso. Ciò lo dissuase dall’uccidere, e fu così che egli divenne un’eremita…

Frederik Rreshpja

alcune liriche del più struggente poeta albanese

Frederik Rreshpja (1941-2006)


Rimani, stasera da me

La luna sul fiume disegna
Un ponte per i sogni delle stelle;
Nube grigia, l'obliata nostalgia
Appoggia il capo sulle mani dei boschi.

Venisti per la via della luna,
I boccioli fiorirono sulle soglie.

Rimani stasera da me
Il tempo che le rose dei tronchi siano morte.


Vignetta

Un ermo salice, coperto d’inverno
Abbandonato da uccelli e foglie:
Il vento, qual scoiattolo balza sui tronchi
Col boccio di pioggia tra i denti

Le notti felici, da campanellini
Trillano sui rami della memoria…
Si profilano sullo sfondo dei lampi
Le lune che si sono mangiate i greggi

Caduto dal vetro franto del cielo
Il cristallo di giaccio albeggia le notti
E sui pastelli di neve infreddolisce
Il salice triste, sfortunato Serembe.




Autunno 1990

Piange il cervo in radura e le lacrime si fan pioggia
Si rattrista il vento sulla roccia
Non ci sono più foglie verdi. Stanno cadendo
I sogni dei boschi ad uno ad uno

Fuggono gli uccelli dallo spogliarsi dei tronchi:
Addio, o boschi dei Balcani!
Solo un cespuglio azzurreggia ancora
L’ultima violetta del canto dell’usignolo

Che venga un autunno senza migrazione d’uccelli!Che venga un Dio, a prender in mano le stagioni!




Per sempre

O aria della sera avvolgimi, è ora che io muoia di nuovo.
Quando si chiuderanno i miei occhi, non ci sarà più mare
E le imbarcazioni di lacrime.
Vado e lascio chiusa tutte le piogge.
Ma tornerò ancora ad ogni stagione che vorrò.
Sono stato la tristezza del mondo.
O aria della sera avvolgimi, è ora che io muoia di nuovo.



Ritorno al luogo natio

Eccomi di nuovo tornato nella Scutari dei re
Eretta pietra su pietra
Sulle nude spalle
Di una donna
Dai fratelli traditori.

Sui rami della pioggia cantano gli uccelli
Sotto il grande albero del mezzodì
Foglie gialle cadono sulla mia anima.

Poi,
io le scaravento verso il cielo per fare un autunno
ma tu non ci sei più…

Ora
sei negli albori delle stagioni
per ciò non ti concerne più il gioco dell’aria e del sole
che s’innalza sulle nubi come su un tavolo pagano.

Appaiono
Nel vespro le rose tessute di sole
Ahi ora persino le rose mi ricordano i camion con i ragazzi uccisi
Com’erano belli e giovani mio Dio!
Arrivederci ragazzi su un pianeta senza dittatura

Nell’aria
Appaiono i patriarchi della poesia albanese
Bogdani, Fishta, Mjeda e Migjeni
I miei padri vagano nell’aria perché hanno i sepolcri franti.

Ora
Anche il marmo della mia voce è franto
Ora
Che è scesa la sera la statua della notte bussa sulla vecchia finestra
Di vetri franti.



Ave, madre mia!

Sto sotto la pioggia. Questa è l’unica cosa che voglio.
Che è questo? Chiedono le stille della pioggia sulla mia fronte
Così ho sentito la voce della pioggia
Un giorno d’estate vicino alla vecchia quercia
Alla porta lasciata aperta per gli uccelli.

Ahi, quand’ero giovane e bello credevo
Che tutte le piogge del mondo cadevano per me
Ma ora che tanti anni sono passati
So che non fa nessun senso che piova.

Ecco andata anche mia madre sotto una pioggia di marmo
Dall’archeologia degli dei che cadevano

Ave, madre mia!
Solo in te ho creduto
Altro Dio non ebbi mai. Amen!




Torso

Vieni fuori dal regno della pietra!
È da così tanto che busso sui marmi.
Mille anni e duemila.

Ci siamo baciati tra vecchie illiadi
Quando gli omeri suonavano la lira
O luna della pioggia, cieca maestosa!
Fai un Iliade per me
Quando anche l’ultima Ilion sarà caduta…

Sta chiuso nella pietra il mio cuore
Milla anni e duemila.




La morte di Lora

Te ne stai nel vespro come se ti fossero crollati i tempi addosso,
pronta per l’eternità.
Non mi parli. Hai dato la parola alla morte, lo capisco.
Ma tu a questo mondo venuta sei per me, non per i cieli.
Siamo sempre stati insieme, fin da giovani,
e ora m’hai lasciato!
Mi fanno tristezza le stagioni. Tu lo sapevi
E dal mondo mi separa una via di miglia solitarie
Abbiamo detto cose che non saranno capite mai.
Abbiamo camminato per i secoli, davanti alle piramidi,
i nostri nomi erano scolpiti
anche quando non avevamo la roccia.
Ma queste cose non saranno mai capite.
Come i vangeli.
Siamo stati belli entrambi, ma tu ora
Sei ancora più bella, con un po’ di morte sugli occhi.



Shiroka in inverno

Non ci sono più uccelli. I voli sono cancellati.
Nulla fuorché la primitiva aura della pioggia.

La costa traluce ai piedi delle acque
Sognando l’estate passata.
Nella sabbia dell’oblio io raccolgo
La ceramica del tuo ritratto.

Che breve questa estate, mio Dio!
Un pugno di sabbia e un pugno di sole.
Tutto il calendario dell’estate con un solo sabato
E tutto il sabato con un bacio solo.


Comunque

Comunque
Questo mattino mi morirà nelle mani
Comunque, la gente saprà inventarsi un mattino,
come ha inventato i mari, le stelle, la pioggia
e tante altre cose che non esistono.

La notte è la tua ombra
Che non sei riuscito a raccogliere.

Comunque, io potrò scrivere liriche moderne,
ora che è troppo tardi per cose che non esistono,
come ad esempio la felicità.
O bei bambini, pioggia di fiori e cose del genere,
di cui la Genesi incolpa il buon Dio!


tradotte da A. Cani

giovedì, maggio 25, 2006

Racconto

UNA CAFFETTERIA MOBILE


Come c’è un primo violino nell’orchestra ad archi, come c’era il primo bajrak nella tradizione dei principati albanesi, così io, nei banconi della caffetteria mobile, mi reputo prima tazzina.

Ora, svegliandomi un’ora più tardi del solito ritardo, vorrò pure combattere quel sonno ultramondano che non è veramente il richiamo della foresta di Morfeo, piuttosto che la voglia di non stare da nessuna parte, e quasi – quasi brama di nonessere. Il mattino. Destinato a passare come se non fosse mai arrivato. D’altronde, questa città è il luogo più adatto per rimanere vittima di simili dissociazioni.
Non sai proprio coem riesci ad aprire gli occhi, ma forse è merito del fiume di caffè che scorre nelle tue vene che riesci a svegliarti la mattina. Come lo scrivere ti sveglia dalla vita. Oh, ma delle cose da fare in paradiso, non ci sarebbe forse da bere un caffè con Kafka, lo scrittore che non dormiva mai… Anche il tuo cuore non dorme, è la vita a tenerlo sveglio, quella stessa che fa assopire la mente che languisce boccheggiando…
Un caffè dalla macchinetta… mah. E a che serve? c'è bisogno di vedere all’opera un Cimbali, quello si.
Il bar sa di virtuale come la geometria degli spazi suona così irreale, mentre passo alieno, il silenzio elettrostatico delle librerie affianco si squaglia mollemente.
Porto in me libri e libri di libri certo non copiosi come quelli dietro le vetrine, ma sicuramente più vissuti, a tratti lacerati da tutte le volte in cui gli ho sfogliati facendo i compiti della solitudine. Cammino sentendomi spugna magnetica, scaffale che stenta a rompersi da volumi il cui peso è centuplicato dalle letture forzate dell’essere solo. Ma questo piccolo boulevard è cosi bello, con il codice solare degli ambulanti negrafricani. La parola fragile quasi mi casca dalla bocca, e provo un fremito dalla paura che si rompa.
Sei abituato ad amare l’università, e vorresti credere che la fine del mondo non la toccherà, per lo meno l’idea di università la ritroveremo… è questo il mio modo di intendere “zona franca”. Quando penso che l’Eden non sia evaporato ma sia esploso per colpa del primo peccato kamikaze dell’uomo, e le sue ancora vivide parti siano finite sparse per il mondo, avvolte, col sole, mi sembra di intuirne la presenza anche qui, dentro queste mura. In questa corte del sapere con cortili interne dove non ci si sente cortigiani.
Ma questo posto ha perso la magia e la sta smarrendo del tutto. Il mio amico insiste a dire che la Statale serbava ancora fiamme di vita quando vi si trovava l’aula fumo. Il massimo splendore si raggiunse quando il medesimo vi trovò una tabella che diceva “Qui si può fumare”, forse unica al mondo. Sicuro: in questa dicitura c’era qualcosa dell’aria aperta e folle delle isole, o quella fresca e alta delle montagne, che sono la vera cifra della natura. “Qui si può fumare”, si sogna il paese in cui questa è la norma che ride dell’eccezione, si è sempre in aria di preparativi... chiunque va in giro con un accendino in tasca, in cuor suo sogna quel paese.
Sono state ore particolarmente umane.
Con altri, per il primo caffè del mezzogiorno… Lo sapevate che a Cuba l’affitto è veramente simbolico. Sigari e ragazze per tutto il giorno: ci sono cinque ragazze per ogni puttaniere… Ma vi giuro che nel mentre una signora era sortita sul balconcino di un piano medio, e mostrava ai nostri occhi estasiati l’origine del mondo in carne ed ossa. Eppure questo rimane un quartiere da signori. Ridiamo ancora di grazia, mentre l’ultimo a girare la testa è anche il primo a pagare, giacché non ha potuto vedere. «Un altro caffè», chiede. Ma certo, non siamo ancora svegli.
Eh, ma lo stare svegli, dipende dai posti.
E si esce, si va in biblioteca… Sapeste le cose che succedono la dentro. Hanno tutti le teste chine ma non per pregare, ne in segno di pentimento; hanno le teste chine per diventare degli individui più preparati, e ogni volta che le rialzano sono più fieri e saccenti. Ma io non vedo che occhi rossi, con i miei occhi non meno rossi. C’è una vera elettricità statica che scorre su tutti i libri.
A qualcuno sembri Renato Zero: il taglio di capelli, il viso apostolico? Ti verrebbe da farlo uscire e cantargli la canzone dall’inizio alla fine, suonandogliene di santa ragione, ma sei in un posto che per il tuo cuore è zona franca, quindi queste cose dovresti proprio lasciarle per fuori.
Fuori. La giornata è una sigaretta che mi si spegne tra le labbra decine di volte, ma non tardo a riaccenderla con il solito caffè. La piazza. A volte ci passavi delle ore, o erano minuti che sembravano ore. Hai fatto finto di averla capita questa città, ma non ti sei mai adattato a questa finzione. Ecco, credo di poter imitare qualche accelerazione che si nota in piazza, posto dove il mondo consolida da secoli l’assurdità del moto. Ma io corro verso un’altra città, quella celata, che non si nasconde ai suoi cittadini, ma ai cittadini di questa città… e la trovo abbellita dal risuonar desto dei passi femminili sul selciato già mutato in ammagliante serpente amaranto… passi femminili di gambe femminili che sorreggono un corpo femminile, felino, perfetto, dove tutto diventa un dove! Poi, un labirinto di silenzio. Se piove, piove, non inquina.
Ma non piove.
Che vivida sera! Ecco le vetrine con i tappi da vino dai fondoschiena di porpora, fulminati in un fantasmagorico momento d’orgia, come gli antichi pompei dalla vendetta del vecchio Vesuvio. Cantami o musa l’ira funesta di Vesuvio l’altezzoso!… E dentro in una saletta d’attesa tipo alberghetto, il più piccolo espresso della città, che fa il caffè più esemplare che uno possa bere. Il tutto abbassando una leva di ottone e stagno. Non esce che del caffè ma io lo guardo come se avessi vinto alla slot-machine… Espresso a leva! Parti per fare un caffè e ti pare di far partire un treno. Caffè in locomotiva!
…Fuori, a sinistra, alla sinistra-destra, poi all’altra sinistra e giù per le scale di una sala da bigliardo stile topaia, ricolma di gente dai volti con soscritto “scordati di me”, venuti dalla Giamaica, dal Venezuela, dall’Albania dopo che le ruote dei carri del destino dei rispettivi paesi si sono staccate rotolando un po’ senza senso. Ma ci sono già i birri, che mi ricordano appunto che le zone franche della mia via qui, sono ben poche.

Avevo il biglietto per uscire da lì di buon grado: la voglia di un caffè. Eccomi arreso all’aria fresca, a quel filo di voce del giorno che non è ancora morto di consunzione. Oh, c’era un ago di luce che m’entrava nell’occhio stamattina dal balcone mentre prendevo il caffè chez moi, e il mio cuore sembrava rigonfiarsi baldanzoso. Ma ora è scesa la sera infingarda, a fare da porta spalancata per la notte. Verdeggiano nel nero le sue giurassiche spoglie: i cipressi. Ma chi c’i va! Il finestrino del bar riluce amichevolmente ed il vecchio barista s’appresta a darti la buona sera.
Un passo, è già passata… un caffè e sei pronto per la notte.

Kafka

Astrit Cani

Franz KAFKA, lo straniero come prodigio, e la vita come ritardo



«La verità ha un volto terribile» riflette Hannah Arendt a proposito di Kafka. Questi, in uno dei suoi fulgenti aforismi, ci ricorda appunto come l’arte (cito a memoria) giri attorno alla verità, come la mosca attorno alla lampada, senza troppa buona volontà di avvicinarsi, per paura di bruciare. Questa verità non può essere contemplata perché la sua vista ci annichilirebbe, e il contemplarlo sarebbe fatale, poiché essa è teomorfica come il Dio di Mosè che dice «Sono colui che sono». Persino l’arte ci tiene lontani dalla verità? Kafka pensa di sì, e quindi come ultima sua volontà ne esige la distruzione. Tutto quello che produciamo, ci allontana dalla verità, specialmente la nostra giustizia… - non è forse questa la tesi, e al contempo il timore di Kafka?
C’è una specie di impronta teomorfica su tutte le cose che fanno parte del mondo kafkiano, ma lo scrittore mette in rilievo soprattutto la loro negatività che egli trova e sente fino alle estreme conseguenze dentro se stesso, dentro il tentennare della fede, della fiducia e della speranza, la paura propria dell’uomo dentro il profeta. Ed ogni uomo è un piccolo profeta del destino della propria famiglia e comunità, e senza dubbio del destino dell’anima sua.
A memoria d’uomo, sembra che i primi a sentire teomorfico, e a fondare il proprio vivere sulla trascendenza, siano state le tribù semitiche. E a rigor di storia, bisogna confessare che si potrebbe parlare di una specie di primato estetico del sentire il teomorfico, o volendo, del sentire teomorfico. Primato che le tradizioni religiose monoteiste e il pensiero filosofico unicista, si compartirebbero. Ma a noi qua interessa indagare il sentire proprio dello scrittore Kafka. Sembrerebbe che egli senta il tempo, ma non lo spazio, dacché il punto di riferimento (il suo centro) è Dio, ragion per cui, trovandosi sempre nella stessa distanza da centro non ha ragione di dubitare che il moto esisti. Non a caso in lui, il procedere narrativo, come ha rilevato Borges si sposa perfettamente coi paradossi zenoniani, veri e propri deus ex machina nei romanzi kafkiani.
Le situazioni e gli avvenimenti accadono nella Storia, ma il Dio è presente in esse come uno straniero. (Kafka stesso assume la prodigiosa identità dello straniero. Quello storico: l’ebreo e quello filosofico: il pensatore.) È una presenza indiretta, almeno così viene sentita. Passa inosservato, ma le anime più sensibili ne avvertono inspiegabilmente la presenza. Il Dio si presenta nelle feste come uno straniero, e se ne va in silenzio, perché non è stato riconosciuto o perché non riconosce più la sua prole. Come un Ulisse che dopo la sua Odissea tornasse in patria ma non si sentisse più figlio ne padre, ma straniero, e se ne andasse senza affetto ne rancore alcuno, senza lacrime ne sorrisi.
I personaggi kafkiani, sono come bruciati dal passare dello spiro divino ed è come se loro a la stregua degli egizi non avessero avuto il messaggio profetico, mancando così di segnare le porte col sangue d’agnello. L’eroe kafkiano non ha valore ma neanche volere sociale. Egli è fermo, si è levato i sandali; non camminerà oltre. Ma la profezia non avviene. Qualcuno ha sussurrato a questo profeta mancato che Dio è morto; egli non riesce a sentire altro. Kafka è un profeta, ma a differenza di Mosé, è profeta senza profezia; è un profeta al negativo come si addice al nostro tempo. La stessa speranza è vista da Kafka, come ineffabile, inesprimibile attributo divino.
In effetti, una delle piú importanti proprietà della categoria di “kafkiano” è la sua inafferrabilità. Sappiamo che la sua fortuna critica si rinnoverà sempre, perché Kafka è lo scrittore meno kafkiano della letteratura, come Dante è il più dantesco. Più lo si conosce, e più Kafka diventa straniero; straniero come foriero di novità, come altro, come prodigio. Le chiavi che noi troviamo, sono come degli alfabeti nuovi, forieri però di un'unica misera lettera partecipe del vero alfabeta. Kafka è un antico linguaggio del futuro.
Le storie di Kafka, sono storie di stranieri. Esse non hanno inizio se non quando i protagonisti sono già diventati degli stranieri. Com’è il caso di Karl Rossmann, ma anche di K. o dell’agrimensore K. Tutti loro cercano di sfuggire a questa condizione, ma non ci riusciranno. Forse, perché stranieri si nasce. Perché è col nascere che si diventa stranieri. E questi personaggi sono sì degli stranieri della società, della storia o del mondo, ma soprattutto essi sono e rimangono stranieri di Dio e della sua provvidenza.
«Dio è morto, l’avete ucciso voi»… e in e per Kafka, è stato soprattutto il nostro ritardo ad averlo ucciso. Il fatto più tragico del mondo kafkiano è questo ritardo. Anche la morte violenta di K. nel “Processo” sembra più tragica perché non avviene a tempo debito ma è anticipata dal suo ritardo nello scoprire la propria colpa. E in fondo, questo ritardo, che è un anticipazione è congenito di tutti gli uomini. Perché tutti noi, moriamo in fortissimo ritardo sul significato della vita; prima di aver capito perché abbiamo vissuto. E forse questa è la più grande colpa. Il non aver capito, il non aver creduto… L’antico detto riferisce, che il buon Dio acceca coloro che vogliono perdere.
Prometeo anche egli, anzi è proprio lui il simbolo dei ritardatari. Il suo fuoco trovò gli uomini già ammaestrati dalle tenebre.

In “Davanti alla legge”, racconto centrale della produzione kafkiana, si assiste alla prova dell’uomo davanti al proprio destino. Vi si trovano dispiegate due negatività: la prima è quella che risiede dentro l’uomo, che è appunto la sua impossibilità di scegliere fino in fondo. La seconda è la negatività insita nel potere. Ma Kafka non solo descrive, ma anche fa fronte a questa negatività; perché essa perde molto della sua negatività per il fatto di venir narrata.
L’assoluto hegeliano in Kafka si concretizza nel gesto. Di cosa parlano mai le opere del buon Franz se non del dettaglio divenuto destino?
Il guardiano che pur si trova ad essere detentore di potere, non è che contadino davanti al potere del prossimo guardiano, e così via fino all’ultimo guardiano, che Kafka non menziona, ma nel cui cospetto tutti i guardiani, sono come il contadino. Kafka sembra dirci, che la via della salvezza esiste ma è impercorribile, dacché il primo passo ci fa (la nascita) finire in mezzo ad un labirinto dialettico, che è tutto centro, e non meno arduo del paradosso di Zenone. Il problema logico di Zenone, diventa in Kafka un problema teologico.
Kafka ha paura del potere. Perché sa che più ci si avvicina a questo, più la nostra umanità viene scossa… Il potere fa paura perché è oggettivo. E il soggetto non potrebbe sopportarlo. Il guardiani della legge fanno paura non perché malvagi o diabolici, ma perché detentori di arbitrio e potere. Credo che uno dei problemi centrali dell’opera kafkiana sia l’impossibilità (l’impotere) - molto moderno - di sottrarsi al potere. Di salvarsi da quella Wille zur Macht, che sarebbe l’unica realtà oggettiva dacché volontà soggettiva capace di oggettivare la realtà.

Tutto ciò, non vorrebbe affatto aiutare il culto di Kafka come filosofo-profeta che continua a fuorviare i lettori di mezzo mondo. Kafka, come ogni altro pensatore andrebbe letto come letteratura. E' nella sua capacità di narrare, quindi di dare una forma positiva alla negatività della vita nel mondo, che consiste la sua genialità. Tutte le mistificazioni ci allontanano da lui, e ne fanno una sfinge. Ma egli è uno scrittore. E leggendolo come tale, esaudiremmo l’ultima delle sue volontà. Quella di bruciare il moralista e il filosofo che vi era nascosto, perché si brucia solo ciò che è combustibile, e non la verità. È sicuro che voleva essere ricordato come scrittore, per questo aveva già pubblicato. Ma nei manoscritti, soprattutto nei romanzi, si faceva avanti a spada tratta un filosofo della religione che deludeva lui e poteva fuorviare il suo lettore. E voleva essere un fedele, semplicemente, meglio che un fedele letterato. E con infiniti scrupoli chiese al suo amico Brod, di fare un gesto di discrezione.
Egli era scrittore nel senso classico: non uno che coltiva misteri. Perché un libro non è l’enigma, ma la soluzione di questa.
E le domande di Kafka più saranno profonde, in misura assai maggiore conterranno le risposte.
Kafka ha oggi nel nostro tempo bassamente antropomorfico e narcisistico, l’ardua compito di farci sentire il teomorfico, di ricordarci la fede per la fede. E in questo, la sua è una delle opere più positive del nostro tempo.

Astrit


Uniqueness,



La poesia di Astrit Cani è veramente Uniqueness, Unicità: penetra in profondità suscitando indicibile stupore e ineffabili emozioni. Stilisticamente e formalmente superbi sono i versi di Astrit, colmi di suggestioni culturali le più varie eppure la cifra poetica è originale quant'altre mai. Alberto Figliolia


Capelli


Neri capelli, fiori delle notte
Respirate il mosto
Della vigna nera,
Versi splendenti che istigate le gote…
Corde di un’arpa che da musica ai ricordi.

Capelli biondi al vento,
Lunge lacrime di stelle
Che lo spazio sacro
Della tribù dei sorrisi risaltate…
Giorni d’infanzia dei geni, fiamme d’oro
Del teatro incendiato dal capriccio.

Capelli rossi,
Nudo elettrico,
Canne di vespro sul rivo dell’amore…
Autunno profondo,
Stagione incinta che carezza
Segrete verità del cuore.



Petite ballade de la vie


Questo famelico ballo strano
È un amore nano.

(Sotto la neve fresca
Il giaccio di ieri indugia)

Specchio ustorio per Narciso
È un animale triste del paradiso.

(Un’amante oziosa ad oltranza
Approda nella mia notte desolata.)

Questa infingarda maledizione
Che ti raggiunge alla perfezione…

(Sera, vecchia sera che sei solo
Porta spalancata della notte!)

Grande male passeggero
È un nemico mortale sincero.


Ah, poeta, guardiano
del fuoco di porpora dell’affanno.



Matrapapupa (al klub degli scacchi)

Tabacco in quantità
Risate e sbuffi
Di fumo ed umori…
Qui, la vita si spreme.


Scacchi

Il nonno mi chiamò
Per giocare a scacchi
Disse, scegli
I giorni o le notti.
E chiuse le sue mani d’angelo.

Non vi dico cosa scelsi,
Alea iacta est.

Ma era Amore contro Saturno
Il cielo contro la terra
Ed era la tigre contro il leone
Sull’agghiacciante simmetria.

Il nonno ha smesso da anni di giocare
Adesso lui patecipa su una scacchiera di luce
L’eterna partita della beatitudine.

Qua giù soffriamo il solito antagonismo
Di ombre e di luci, di angeli e diavoli
Di un Gioco che ha in se tutti gli altri giochi e chi le gioca
Vi si trova Bisanzio di tenebra ma anche l’Arabia generosa
La dama, l’odierno poker, la roulotte russa imperiosa;

Shakespeare con la sua schiera di spiriti vivi
Gogol vi mette contro le sue anime morte.

Io gioco contro la mia ombra.
Il patto è questo, strano:

Se vince lei, diventerò la sua ombra
Se vinco sarà lei a mangiar polvere.

Ah se solo quel giorno non avessi scelto le notti,
Se solo mio nonno mi avesse indicato
In quale mano si trovavano i giorni!




Preghiera per la favola serale
Alla nonna materna, in memoriam


1.
Narrami dove racchiudi la vita
Quando hanno fine le bianche tue fatiche
Per l’ultima volta che colmi
I polmoni del fumo forte di tabacco
Del cuore che batte nell’alta nebbia.

Mostrami dove chiudi la tua vita
Che io l'abbia come posto per pregare.

Sai raccontare così bene
Che la vita serba i miracoli
Fino all’ultimo istante.

Raccontami…
Starò sveglio.
Mi piace soffrire insieme
Sulla pace dei macigni.


2.
Non chiudesti la vita
Come una ferita
Ma come si chiude il fiore di notte
Signora Lisa
Per custodire l’ultimo barlume.